LA MONETA CINESE, LA MAGGIORE CREDITRICE DEL DEBITO USA, A CACCIA DEL DOLLARO. SUPERERA’ IL “VERDONE” ENTRO IL 2015?

Articolo di ALESSANDRO MERLI PER IL SOLE 24 ORE preso da dagospia.com

Alla fine di maggio, durante la sua prima visita ufficiale in Cina, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Tim Geithner, tenne un discorso all’università di Pechino. Al termine del quale insistette sul fatto che gli Usa restano a favore di una politica del dollaro forte, inaugurata ormai quasi due decenni fa dal mentore e predecessore di Geithner, Bob Rubin, e che le attività finanziarie cinesi investite in dollari sono sicure. Riferiscono le cronache che, fra il pubblico, diversi ascoltatori scoppiarono in una grassa risata.

Aveva poca voglia di scherzare, questa settimana, il funzionario del ministero delle Finanze cinese, Zhu Guangyao, quando, echeggiando una posizione espressa più volte in questi mesi da Pechino, ha richiamato gli Stati Uniti a «politiche responsabili per assicurare la stabilità del cambio del dollaro e proteggere gli asset cinesi ».

La faccenda è ancora più seria perché il rimbrotto arriva quasi alla vigilia dell’incontro di Washington della prossima settimana per il cosiddetto “dialogo strategico ed economico” fra le due grandi potenze.Il futuro del dollaro -il cui collasso viene ritenuto da molti economisti come uno degli eventi che potrebbero far piombare economia e finanza globale nell’abisso sull’orlo del quale si sono affacciate nell’autunno scorso – si gioca sull’asse Washington-Pechino.

Dall’alto dei suoi 2.130 miliardi di dollari di riserve (oltre due terzi dei quali, secondo stime ufficiose, denominati nella valuta Usa) e della sua montagna di Treasuries, (801 miliardi di dollari, quasi più della somma di Giappone e Russia), che ne fanno il maggior creditore del Tesoro Usa, Pechino è preoccupata: che le politiche di stimolo monetario e fiscale adottate a Washington per far uscire l’economia dalla recessione portino al crollo del dollaro. I cinesi pensano che l’abuso che gli Stati Uniti hanno fatto della loro valuta come moneta di riserva abbia contribuito alla crisi globale. Del resto, le politiche della Cina, di crescita attraverso l’export, rappresentano l’altra faccia degli squilibri globali, che affliggono l’economia mondiale da anni e di cui i disavanzi americani sono l’aspetto più evidente.

I richiami di Pechino a Washington, hanno scritto Aiyar Swaminathan, del Cato Institute, e Arvind Subramanian, del Peterson Institute, sono come «lo spacciatore che chiede al drogato di disintossicarsi ». D’altra parte, osserva Stephen Jen, economista dell’hedge fund londinese BlueGold, con l’enorme quantità di titoli del debito pubblico americano in loro possesso, «i cinesi sono come un’azionista degli Stati Uniti e la loro voce deve essere ascoltata».

La questione di fondo di questo confronto fra Washington e Pechino è quale sia il futuro del dollaro come moneta dominante. E se, eventualmente, possa essere lo yuan a sostituirlo. «Lo status di moneta di riserva – ha scritto già qualche anno fa l’economista Avinash Persaud, ricordando il ruolo internazionale, nel lontano passato, della dracma greca, dei denari romani e del ducato veneziano – non dura in eterno». Il paragone contemporaneo che viene avanzato più spesso è quello del passaggio del testimone fra la sterlina e il dollaro.

La Cina, nelle stime di lungo periodo di Angus Maddison, è destinata a superare, in termini di parità di potere d’acquisto, gli Stati Uniti nel 2015 e a diventare, secondo la Wto, il primo esportatore mondiale già quest’anno. Sommando questi titoli a quello di creditore internazionale, qualcuno avanza l’ipotesi che possa essere, prima o poi, lo yuan a sostituire il dollaro. Le dimensioni delle riserve cinesi sono espressione di una potenza finanziaria spaventosa se si calcola, come hanno fatto questa settimana in un articolo per la Brookings Institution, Eswar Prasad, ex capo della divisione Cina del Fondo monetario, e Isaac Sorkin, che oltre 2.100 miliardi di dollari equivalgono al valore di tutti i terreni e le proprietà immobiliari di New York City, Los Angeles e Boston messe insieme, oppure ai tre quarti della capitalizzazione delle imprese del Dow Jones a fine giugno, o a un quarto dell’S&P500.

La spinta per «la caduta dell’impero del dollaro», come l’ha definita l’economista dell’Ocse,Helmut Reisen,ha soprattutto un connotato geopolitico. Con la loro richiesta di diversificazione dalle riserve in dollari, la Cina e gli altri Bric (Brasile, Russia, India) vogliono soprattutto affermare che il peso degli Stati Uniti nel mondo è declinante e che il loro, crescente nei fatti, dovrebbe essere riconosciuto anche nella governance globale. Non a caso a far la voce grossa è, a fianco della Cina, soprattutto la Russia, che mal sopporta il proprio declassamento a potenza di secondo rango.

È però una diversificazione non facile e tutt’altro che immediata, considerando che la nascita dell’euro, dieci anni fa, ha a mala pena scalfito la percentuale delle riserve globali denominata in dollari, che oscilla da anni in una fascia limitata, comunque sempre sopra il 60%, e che trovare attività non in dollari nelle quantità richieste presuppone una profondità di mercati difficile da reperire fuori dagli Stati Uniti.

La proposta degli stessi Bric di rilanciare il ruolo dei diritti speciali di prelievo, la moneta-paniere dell’Fmi, si scontra con la realtà. Anche dopo l’emissione, già deliberata, per un’equivalente di 250 miliardi di dollari, i diritti speciali di prelievo resteranno una piccola frazione della somma delle riserve ufficiali. Ulteriori emissioni, osserva Mark Williams, di Capital Economics, sarebbero una minaccia potenziale alla stabilità monetaria globale.

Quanto allo yuan,l’economista di Hsbc, Qu Hongbin, sottolinea che Pechino ha dato il via a un processo di internazionalizzazione della valuta che, a suo parere, seppur graduale, andrà più rapidamente di quanto molti si aspettino. Questo processo passa attraverso l’utilizzo della potenza commerciale della Cina, favorendo l’uso dello yuan negli scambi.

Non si tratta però di un percorso senza ostacoli. Un grande assertore dell’uso delle rispettive valute, al posto del dollaro, per regolare il commercio bilaterale, è Luiz Inacio Lula da Silva, il presidente del Brasile, di cui la Cina è diventata di recente il principale partner. In privato, molti imprenditori brasiliani, forti esportatori in Cina, hanno suggerito a Lula di lasciar perdere questa iniziativa. Non sanno che farsene di esser pagati in yuan, una moneta non convertibile, sottoposta a pesanti controlli sui movimenti di capitale e che dovrebbero comunque “swappare”, con costi ulteriori.

Alle pressioni geopolitiche per il ridimensionamento del dollaro si contrappongono le ragioni dell’economia e della finanza. E qui Pechino, che appare presa in quella che è stata definita la trappola del dollaro, sembra contraddire la sua campagna. La Cina infatti ha due obiettivi principali: preservare il valore delle proprie ingenti riserve e mantenere competitivo l’export. Entrambi presuppongono un dollaro, se non forte, quanto meno sufficientemente stabile.

Non è un caso che, dopo la rivalutazione dello yuan seguita alla riforma del regime di cambio del 2005, l’apprezzamento della valuta cinese in termini nominali sul dollaro si sia arrestato già a metà del 2008, anche se c’è un modesto rialzo del cambio reale effettivo (misurato cioè anche sulle altre valute degli altri paesi e al netto dell’inflazione). Di fatto, come ha ribadito anche ieri l’Fmi nella sua analisi dell’economia cinese, il cambio dello yuan è «notevolmente sottovalutato». Un libro uscito in questi giorni, di Morris Goldstein e Nicholas Lardy, del Peterson Institute, calcola questa sottovalutazione nel 19%, con una correzione limitata rispetto al 23% dell’estate del 2005, quando fu introdotta la riforma del cambio.

La sua dipendenza dall’export, soprattutto per la creazione di posti di lavoro, e il peso delle riserve significano che la politica di diversificazione della Cina dal dollaro (già cominciata, per piccole quantità, puntando sull’oro, altre materie prime e ora, come è stato annunciato questa settimana dal primo ministro Wen Jiabao, sul rafforzamento all’estero dei gruppi cinesi, con investimenti e acquisizioni) procederà molto cautamente.

Ma, sostengono Prasad e Sorkin, «le autorità cinesi sanno che nel lungo periodo devono svezzare l’economia dalla dipendenza dalle esportazioni». Anche perché il costo dell’accumulazione di riserve è pesante, non solo in termini di squilibri globali, ma anche di squilibri interni e di sacrifici per la popolazione. La mancata correzione di questi squilibri, è la poco incoraggiante conclusione dei due economisti della Brookings, «pone enormi rischi di un’altra catastrofe globale ».C’è poco da ridere.

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