Ilaria Alpi, 20 anni di omertà sulla morte della giornalista

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Processi. Depistaggi. E ombre. Il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi fu uccisa in Somalia. Boldrini: «Togliere il segreto dagli atti».

La verità giudiziaria non si trova. Né, evidentemente, si è voluta trovare.
Ma, a 20 anni dalla sua uccisione, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio con l’operatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi è un nome e un volto rimasto nella memoria degli italiani. Si ricorda nelle scuole e nelle istituzioni, scrittori e registi ne raccontano la storia e i giornalisti l’hanno elevata a simbolo della professione.

Non può bastare, soprattutto in uno Stato che, non per la prima volta nel suo passato recente, ha eluso di far luce su verità oscure. Ritardi, depistaggi e omertà di cittadini anonimi e rappresentanti statali hanno bloccato l’azione scrupolosa di altri cittadini anonimi e rappresentanti statali, impegnati a scavare su stragi e attentati, rimasti nel tempo ostinatamente insoluti.

L’AGGUATO A MOGADISCIO. Rileggendone la cronaca e ascoltando familiari e testimoni, gli stessi coni d’ombra e le medesime dinamiche attraversano le indagini sull’omicidio dell’inviata del Tg3 e di Hrovatin, freddati in Somalia dai killer nella loro auto mentre, durante la guerra civile, raccoglievano informazioni su un pesante traffico d’armi e rifiuti tossici verso il Corno d’Africa.
«Roba grossa», disse Ilaria al suo responsabile degli Esteri un giorno prima dell’agguato, come è registrato dagli atti della Camera. Per intervistare il sultano di Bosaso, Abdullahi Bogor Muse, la giornalista chiese di «rinviare di un giorno la partenza». Alla sua redazione apparse «ansiosa» ed «eccitata», come capita quando si ha in mano qualcosa di eccezionale.

DA ESECUZIONE A RAPINA. Ma la commissione parlamentare si chiuse con l’approvazione, nel 2006, di una relazione di maggioranza sull’ipotesi di «tentativo di rapina o di sequestro di persona», sfociato «fortuitamente con la morte delle vittime».
La giornalista deceduta a 33 anni era «in vacanza e non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo l’ha accertato», ebbe poi a dichiarare, anni dopo, l’avvocato di Forza Italia Carlo Taormina, ex legale anche degli ufficiali di Ustica accusati di insabbiamento.

Alla Camera 8 mila documenti dei servizi di sicurezza sul caso Alpi-Hrovatin e sui traffici internazionali delle cosiddette ‘navi a perdere’ aspettano di essere desecretati, secondo quanto ricostruito da un’inchiesta del quotidiano Il Manifesto di Andrea Palladino e Andrea Tornago.

Tra l’aprile e il maggio 2013, in particolare, risulta il no dell’Aise (i servizi esterni dell’ex Sismi) a un «ufficio di Montecitorio che chiedeva la declassificazione dei documenti riservati acquisiti dalla commissione parlamentare sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella».

L’ARCHIVIO DELLA CAMERA. Pare poi che la presidente della Camera Laura Boldrini ne abbia fatto una sua battaglia, accogliendo, nel dicembre 2013, la richiesta di Greenpeace per rendere pubblica la mole acquisita da diverse commissioni d’inchiesta tra documenti, testimonianze, e informative di indagini giornalistiche, parlamentari, governative e della magistratura.

Su parte di questo archivio (diverse migliaia di atti) sarebbe però stato apposto il segreto di Stato: un macigno che in Italia, oltre a difendere gli «interessi fondamentali» del Paese, ha coperto le collusioni degli apparati di potere con fatti scomodi da rivelare.

Per l’anniversario della morte della giornalista, quasi 60 mila firme chiedono a Camera e Copasir (il Comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti), in un appello di Articolo21, rilanciato dall’Associazione Ilaria Alpi, il via libera per la desecretazione dei dossier, nella speranza che con la trasparenza arrivi anche verità e giustizia sul caso.

SOTTO SEGRETO DI STATO. «C’è molto da fare e speriamo che tutti gli organi dello Stato collaborino. In primo luogo la Camera dei deputati», ha dichiarato il legale della famiglia Alpi, Domenico D’Amati.
Ma Luciana, madre di Ilaria, non ha molta fiducia nei documenti: «Bisognerà vedere cosa effettivamente ci faranno leggere».

Poco più di un centinaio di atti sarebbe stato infatti estratto, in una prima ricognizione, come relativo alle navi dei veleni: un dato che stride con quanto rivelato dai vertici militari ai magistrati sulle migliaia di documenti dei servizi sul tema inviati alle commissioni parlamentari.

«E poi troppi pezzi di questa storia sono scomparsi», ha denunciato la signora Alpi nelle ultime interviste, «negli anni mi sono scontrata con un muro di silenzi, depistaggi, documenti spariti e strani decessi di persone legate alla vicenda».

La strada della verità, dal titolo dell’ultimo speciale di RaiTre (in onda il 20 marzo alle 21.05) su Ilaria e Miran, è ancora lunga.

Con 20 anni di inchieste, cinque magistrati al lavoro, perizie e controperizie dagli esiti opposti, non sono mai risbucati i taccuini dell’intervista con il sultano di Bosaso e altri appunti della giornalista sulla Somalia: sparite come l’agenda rossa di Paolo Borsellino anche diverse cassette di Hrovatin.

Del video su Bogor Muse, chiaramente tagliato in un punto, risultano 35 minuti di girato, mentre il sultano – contraddittorio, ma molto dettagliato nelle testimonianze – ha dichiarato di aver parlato per più di due ore.
Si è poi scritto di un certificato di morte di Ilaria, saltato fuori nel 1995 in una cartella gialla con sopra scritto «Somalia» nel corso di una perquisizione nella casa dell’imprenditore Giorgio Comerio, («L’ingegnere delle scorie nucleari»), ma in seguito scomparso dai faldoni degli inquirenti, probabilmente trafugato. Alla fine, secondo i nuovi inquirenti, forse neanche esistito.

RITARDI E OMISSIONI. Ci sono poi le morti dell’agente del Sismi Vincenzo Li Causi, l’informatore di Alpi ucciso in Somalia pochi mesi prima della giornalista, e dell’autista dei due reporter, Ali Mohamed Abdi Said, dopo aver promesso, al processo, importanti rivelazioni. E ci sono i ritardi e le omissioni, nei giorni immediati all’uccisione: l’autorità giudiziaria attivata solo al momento della sepoltura di Ilaria, dopo l’arrivo a Roma dei suoi bagagli con i sigilli violati; l’autopsia sul corpo a due anni di distanza; le perizie balistiche che, smentendo i testimoni oculari, parlano di «colpo sparato da fucile probabilmente da lontano»; e diverse altre ambiguità.

Alpi e Hrovatin volevano raccontare il grande traffico di rifiuti tossici che anche l’Italia scaricava in Somalia, in cambio di tangenti e armi ai signori della guerra. Avevano in programma una visita alla nave della Shifco, donata dalla Cooperazione italiana all’allora compagnia statale di pesca somala. E potevano aver scoperto commistioni apparati dell’esercito e personalità dell’economia italiana.

INCHIESTE SCOMODE. Ma invece di approfondire questa pista si tirarono fuori sospetti sui fondamentalisti islamici, finendo poi per condannare il somalo Hashi Omar Hassan per concorso in sequestro degenerato in sparatoria, da sempre «innocente capro espiatorio» per la madre di Ilaria.

«Ci sono giornalisti che vantano un’agenda piena di nomi che contano. Che quando passano in redazione si notano per il passo svelto di gente che sta seguendo cose molto importanti. E poi ci sono ‘giornalisti-giornalisti’, quelli che amano il mestiere e hanno la testa dura. Quando passano al giornale quasi non li vedi e hanno tempo persino per salutare la donna delle pulizie», ha scritto Corradino Mineo, ai tempi suo vicedirettore al Tg3, in ricordo di Ilaria Alpi. «Ilaria era così. E credo che fosse così anche Miran».

Fonte www.lettera43.it

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